(Meno) Centotrenta. O giù di lì.

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Ci eravamo lasciati ormai troppe settimane (mesi) fa, con un check-in fatto e con io che -con un’immagine di “Paris vs New York“- mi domandavo se la Grande Mela che sognavo da una vita sarebbe stata la mia nuova città del cuore.
Oggi avrebbe senso riprendere il discorso con un’altra immagine del libro di Vahram Muratyan ma lui non l’ha disegnata, per cui ci provo io (che con la grafica son negata, che si apprezzi lo sforzo almeno).
nyparisÈ successo che quell’aereo, tra eccitazione da viaggio e paura del volo, l’abbiamo preso. Lato destro, come da copione, per vedere le luci di Manhattan all’atterraggio al JFK. Passate le forche caudine della dogana in 2 minuti netti e saliti sul cab, pure abbiamo chiesto al taxista di percorrere la 495, affinché fosse l’Empire il primo a stagliarsi alla nostra vista, una volta sbucati a New York dal Queens.
È successo che sul momento fossimo troppo su di giri per andare a dormire (un bell’hot dog dal carretto degli ambulanti sulla Broadway, mentre il vapore esce dalle grate dell’asfalto, invece …), ma la mattina dopo alle 5 il jet leg ci tenesse già ben svegli.
Così è successo che mentre l’alba sorgeva sullo skyline più famoso del mondo, il Dottorino mi ha offerto la scatolina magica dicendomi «che ne dici se facciamo basta con questi anniversari?».
Tra centotrenta giorni suppergiù, a due passi dal Trocadero -in un viaggio a metà tra quello che sui blog europei è un “destination wedding” e quello che gli americani chiamano elopement- gli diro di sì.
Paris versus New York: per noi no, non c’è gara.

New York, (not just a) state of mind

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L’abbiamo deciso quasi un anno fa: era metà dicembre e saranno state le cinque del pomeriggio; il cielo era di quel grigioblu che è più grigio che blu, come solo quando ha appena piovuto e si rischiara che è già il tramonto. Ci trovavamo su un bateau mouche che stava per imboccare il Pont de la Concorde: già si intravedeva tutta la sfilza di ponti che fanno da liaison alle parti del centro più bello di Parigi. È stato lì, su quel bateau mouche, in quel freddo pomeriggio di inizio inverno, che abbiamo deciso che il 2013, nostro quinto anno insieme, sarebbe anche stato l’anno di New York.
Dici New York e nell’immaginario di chiunque partono mille scene di film e telefilm, insieme a un’interminabile wish list. Perché una lista di cose da vedere e da fare in un viaggio a New York, ce l’abbiamo tutti. Alzi la mano chi non c’ha mai fantasticato su un viaggio a New York.
Io ho iniziato a farlo più di vent’anni fa, sarà stato il 1990 o giù di lì: a Daddy avevano piazzato un viaggio di lavoro alla vigilia del Natale e ci aveva proposto di raggiungerlo. Un sogno durato poche ore: il tempo sufficiente a Maman per scoprire di avere il passaporto scaduto e troppo poco tempo per rinnovarlo.
Ma adesso i passaporti ci sono, l’esta anche, i biglietti aerei sono prenotati da mesi e non è un caso che l’hotel scelto porti il nome e occupi la vecchia sede di uno dei più antichi giornali della città.
Per festeggiare il primo lustro insieme, tra soli tre giorni Dottorino porta Mademoiselle nella città dei lustrini per eccellenza.
Ora che New York è così vicina, completare quella lunga lista di cose da fare e da vedere sembra impossibile. E cinque giorni non abbastanza per depennare ogni punto.
So che darò una possibilità ai cupcakes, come a Parigi dò sempre una possibilità ai macarons. Ma poi andrò a fare una più goduriosa merenda da Yonah Shimmel Knish Bakery e chissà che non ci incontri Woody Allen, che fa scorta di Knish. Sulla strada per Magnolia Bakery però, devierò per il 66 Perry Street, a esasperare un po’ i proprietari veri di casa di Carrie in quanto ennesima ragazza che fa fotografare di fronte a quei gradini. Non so se vorrò andare a vedere un musical a Brodway (a meno che non sia prodotto da Maxwell Sheffield), ma credo che la prima sera in albergo sarò sì stremata ma troppo eccitata per addormentarmi e allora vorrò vedere in diretta David Letterman e il suo late show (per forza di cose, senza sottotitoli!). Magari ci scappa pure dal vivo, ma pare che ogni sera ci siano lunghe code davanti al teatro. Grazie al city pass invece, non faremo lunghe code per salire sull’Empire e nemmeno sul Top of the Rock e chissà se una volta scesi il Dottorino mi porterà al patinoire del Rockfeller Center, che è già lì per noi a far sembrare che sia Natale. In cambio potrei portarlo al Oyster Bar alla Grand Central Station. Sicuro passeggeremo per Central Park: ché abbiamo anticipato il viaggio d’anniversario proprio per goderne dei colori. E io vorrò emulare Blair, dando da mangiare alle papere. Per fare le cose per bene, uscendo dal parco, potrei anche fermarmi a bere un caffè-bibitone sulle gradinate del Met, per sentirmi anch’io un po’ la reginetta della Constance; subito prima di andare a passeggiare per Madison Ave e per la Fifth. Non so se vorrò “far colazione” da Tiffany, ma di certo in quelle vie mi concederò una manicure. Magari al salone Essie, nell’Upper East Side. Quello a base di Knish non sarà l’unico mio pasto kosher, pare che ci sia anche una catena di delight con menu interamente dedicato. Alternerò piatti ebraici e pastrami a enormi hambuger. E poi vuoi non andare a bere un cosmopolitan su qualche rooftop? pare che uno degli happy hour cult del momento sia su quello dello Standard Hotel. Magari dopo essere andata al Moma, a commentare certe opere contemporanee come fossi in a Io & Annie.
E poco prima di andar via, prenderemo il battello per Staten Island: per dare uno sguardo d’insieme allo skyline più famoso del mondo. Per sentirci un po’ come sul bateau mouche. E per iniziare a fantasticare sulla prossima meta.

Mi scoccia, ma volte penso abbiano ragione loro

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Se c’è una cosa nella quale posso dirmi esperta quella è la ricerca di lavoro. I miei cv hanno raggiunto più di un migliaio di scrivanie reali o virtuali a Torino e nel mondo, negli ultimi cinque/sei anni. Con un numero imprecisato -sicuramente maggiore di cento e non sono altrettanto certa minore del doppio- di colloqui sostenuti, sono una che sul tema ritiene di avere qualcosa da dire.
A riguardarmi indietro, mi è successa una cosa buffa: quando non lo cercavo, tipo negli anni dell’università, era il lavoro a venirmi a trovare spontaneamente; ma archiviata la pergamena in fondo a qualche cassetto, beh le cose si sono fatte più complicate e sono diventata la classica ragazza a progetto che al cambio di stagione, oltre a spostare vestiti negli armadi, si ritrova alle prese con l’invio di candidature, l’aggiornamento del profilo LinkedIn and so on.
In tutti questi anni ho imparato a infiocchettare esperienze nella media per presentarle come grandiose palestre professionali, ho trasformato competenze a mio giudizio normali in skills vincenti. Soprattutto ho imparato a non cadere nelle trappole dei cosiddetti esperti di HR, calibrando ambizioni, desideri e determinazioni. Ho trovato risposte più o meno fantasiose all’infingarda domanda «come ti vedi di qui a cinque anni?». Talvolta mi sono presentata come molto più carrierista di quel che sono, molto più spesso ho cercato di mostrarmi molto molto meno misantropa (“lavorare in team? è esattamente ciò che mi manca di più come freelance, è proprio per il desiderio di far parte di una squadra che vorrei cambiare lavoro…”). Sì certo qualche volta ho anche nascosto dettagli della mia vita privata (“vivo da sola. Quell’uomo che ha la mia stessa residenza? ah no beh, è il mio coinquilino…sa, per via delle spese…”), ché avrebbe puzzato troppo di bruciato se avessi raccontato quanto siamo “dink” io e il Dottorino (ed è un po’ ironia della sorte, visto che i bambini no, proprio non sono del nostro).
Ecco se c’è una cosa che mi brucia di tutta questa faccenda e di tutti questi anni di colloqui e selezioni è proprio il fatto che a far pendere l’ago della bilancia almeno in un paio di buone ottime occasioni sia proprio stato l’essere una signorina: in età da marito, in buona salute, presumibilmente fertile.
Sentirsi dire dal cacciatore di teste di turno «gli sei piaciuta molto, avevi tutti i numeri però sai -non dovrei dirlo- ma ci han riflettuto un po’ e han preferito scegliere un ragazzo» sono cose che fan venire voglia a te di andare a caccia, ma non in senso figurato, no: proprio col fucile.
Qualche giorno fa parlavo con un’amica, una come me, una ragazza a progetto. La scorsa settimana l’han scelta per un lavoro che non le piace. Non è quello per cui ha studiato e si è impegnata. Non ci vede il suo futuro. Ed è pagato male. Ma le han offerto un contratto, uno vero. Io le ho chiesto: «che fai continui a cercare?». E lei: «mannò, con un’occasione così?! ora faccio un figlio!».
Gli head-hunter: a volte mi viene da dar ragione a loro.

The sound of silence

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casolare_cspHo trascorso gli ultimi giorni in questo posto qui. Un casolare toscano di quelli dove i cellulari non trovano campo e tu ci vai per mangiare bene e guardare le colline.
È vero: ci ho trascorso gli ultimi giorni, non gli ultimi mesi. Diciamo però che a volte è un po’ come se anche certi luoghi virtuali risultassero irraggiungibili. E va bene così. Ma ora prendo di nuovo cinque tacche.
Via. C’est (re)parti.

Classiche di primavera

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Adoro le consuetudini.
Le cose che si ripetono uguali (o quasi) a loro stesse.
Che evolvono tanto lentamente che quasi non ce ne si rende conto.
Le consuetudini che sono come le stagioni.
Così oggi su Torino splende il sole su un cielo limpido; ma l’aria è gelida.
E tra poche ore prenderemo l’autostrada, quella le cui curve conosciamo a memoria.
E poi domani la sveglia suonerà come il canto dei gabbiani. Appena dopo, come il colore delle mimose e il profumo delle ginestre.
(Ma sotto i miei piedi nudi sentirò gelido il sentiero mentre attraverso il giardino per andare là dove si può salutare il mare).
E poi ci saranno le voci, i sorrisi: le storie di amici che incontri ogni anno, proprio come le stagioni. Ogni anno per la prima volta proprio in questo weekend di metà marzo. E la colazione nel solito caffè. Con qualche sedia in più di quindici, dieci o due anni fa. Perché siamo cresciuti, anche di numero. Un occhio alla Gazza per vedere chi se la gioca quest’anno la Milano-Sanremo. La classica di Primavera. Un classicissimo per me. Per noi.

E comunque non ho mai detto di non aver bisogno di un analista

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Mi è successo nella primavera del 2008. Tre, quattro, cinque volte.
È successo che facevo sogni ricorrenti. Di quelli che ti svegli un po’ angosciato. Solo che io non sognavo di cadere, o di perdere i denti o di urlare senza che uscisse la voce.
No.
Io sognavo Enrico Berlinguer. Che difficilmente può essere così radicato nel mio inconscio, se ai tempi del suo funerale io avevo quell’età in cui appena si inizia a guardare i cartoni animati.
L’avevo sognato al tavolino accanto al mio al caffè Elena, al mercato e finanche sul tram con io che gli dicevo che lui non poteva essere lì perché era morto e lui che stava zitto. Poi una volta l’ho sognato a Milano, che mi faceva ciao con la manina mentre era in bicicletta dalle parti di Bastioni Porta Volta. Quella è stata l’ultima volta. Sarà che poi nella primavera del 2008 ci sono state le elezioni.
Stanotte ho avuto un sonno tormentato.
E mi sono svegliata con l’ansia.
Ho sognato di essere a Cortina con la mia famiglia a fare cose ampezzane, roba che -dopo averla provata mio malgrado sulla mia pelle- non augurerei al mio peggior nemico (cfr il Capodanno di Pif per capire cosa intendo). Maman cucinava canederli per una soirée, il Dottorino indossava quei pantaloni assurdi con le bretelle. Alla festa mio fratello avrebbe portato un critico musicale. Di nome Enrico. Quando ho aperto la porta, è comparso Berlinguer. E io a dirgli «Enrico, ma lei non può essere un critico musicale, lei è Berlinguer!» e lui a rispondermi «signorina, non so di cosa parla»…

Di tacchi, eventi e simpatia (al di là e al di qua di uno schermo)

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«Sono figa. Non posso essere anche simpatica». Così dice di sé la Spora e forse offline ha pure ragione. Ma a leggere il suo blog, una come lei non può che ispirare simpatia. Sarà che non ha peli sulla lingua, prima ancora che sulle gambe; o che dalla sua penna escono parole che più che scritte sembrano parlate. O soprattutto perché le sue idee, il suo punto di vista, sono del tutto sopra le righe. Poi una donna che ha il coraggio di correre il rischio di lasciare la sicurezza di un lavoro nei grattacieli per uno con le lezioni di tacchi, beh fa simpatia a prescindere.
Al di qua dello schermo, ti ritrovi a fare il tifo per lei e se fa un evento nella tua città, non puoi non andarci.
Lucidate le decolté preferite, domenica Mademoiselle & friends erano in pole position per la tappa torinese dello Stiletto Academy Tour. Alle 14 all’indirizzo indicato sul pass. Sbagliato, ma sono cose che capitano: d’altronde con due hotel della stessa catena in un solo Lingotto, l’errore è possibile. Lei invece, la Spora, si è fatta attendere 50 minuti come una vera star: un paio d’ore prima, poche sale più in basso, l’aveva fatto anche un politico con suoi fan. È una brutta moda che dilaga. Ma qui poco male (a differenza del comizio dove l’attesa dovrebbe indurre a rinsavire): si sa che se metti tante donnine tutte insieme, il tempo passa a ciacolare. E poi il programma dell’evento si annunciava bello fitto e noi come in quel celebre concerto di Madonna “Torino siete caldi?” eravamo belle cariche. Forse un po’ troppo perché l’entusiamo è calato -e di parecchio- quando la Spora ha esordito annunciando che:
a) la presentazione del suo libro non l’avrebbe fatta, perché in fondo lei non è una scrittrice;
b) tanto più che la settimana prima a Milano le copie delle ragazze erano state personalizzate con delle super sporine disegnate al momento, ma oggi da noi l’illustratrice non c’era;
c) anche per la sfilata finale si era inventata qualcosa di diverso perché la sfilata della Spora è solo col tappeto rosso ma il tappeto rosso al Lingotto non l’aveva portato;
d) e che a dirla tutta non c’erano nemmeno i gentlemen misuratori di tacco ma quella era colpa nostra perché eravamo noi a non averli segnalati;
e) però le migliori a camminare all’aperitivo finale sarebbero state premiate lo stesso: a Milano aveva regalato delle sedute di luce pulsata, ma a Torino quello sponsor non c’era e quindi noi dovevamo tenerci i peli;
f) questo perché gli sponsor del tour non partecipano a tutte le tappe e ad esempio nemmeno il tanto decantato salottino trucco ci sarebbe stato;
g) e infine che la lezione di tacchi poteva aspettare, di andare a farci “coccolare” dagli sponsor presenti e che ci saremmo aggiornate un paio di ore dopo.
Ve le immaginate un centinaio di donzelle sui trampoli riversarsi su due stand per accapparrarsi il trattamento aggratis? Quella ventina di più veloci che sui tacchi ci sapevano camminare di loro si sono aggiudicate la manicure, le altre si sono messe in coda al parrucco, in uno stanzino dalle temperature caraibiche e un qual certo odorino di umanità misto Chanel.
Mademoiselle & friends han bighellonato un po’ nella hall dell’evento ma non abbastanza per far passare in leggerezza due ore e -sentendosi abbandonate a loro stesse- vinte dalla noia, sono andate via ben prima dell’agognata lezione di tacchi.
La Spora, una vera geek, con lo smartphone raccoglieva scatti e momenti da postare poi alle ragazze rimaste al di là dello schermo.
Volti, storie, situazioni e perfino eventi al di là e al di qua degli schermi sono diversi.
L’idea che mi ero fatta online dello Stiletto Tour era molto cool, l’esperienza offline invece decisamente “meh”.
D’altronde (forse, meglio così: ché) la perfezione quasi mai ispira simpatia.

Donne (a ognuno la sua)

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Sabato sera a cena:

– «E poi abbiamo visto dei piatti da primo bellissimi: da un lato hanno una sorte di boule dove arrotolare gli spaghetti…»
– «Ma scusa: sono ridicoli, ma cosa te ne fai?»
– «Ridicoli? Tu non capisci: sono chiccosissimi!»

Domenica a pranzo:

– «Agnolotti del plin… Tagliata di vitella… Tortino di verdure con fonduta… tu cosa prendi?»
– «No vabbé ma c’è il cinghiale con la polenta! se c’è il cinghiale io mangio cinghiale…»

Nell’arco di dodici ore il Dottorino ha avuto due conversazioni con due donne diamettralmente opposte.
E credo che si sia sentito fortunato che sia la seconda conversazione quella che si è svolta con la sua fidanzata.

Altro che i rimedi della nonna…

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Poi a volte capita che perdi un po’ la bussola. O che non hai più voglia di vestire i panni di Don Chisciotte.
La mia cura sono due spruzzate di Chance subito dopo la doccia la mattina: non risolve, ma aiuta.
E quattro Speculoos pucciati nell’earl grey in un momento a piacere del pomeriggio.
Un tuffo in una piscina deserta, e perché sia deserta occorre tuffarsi dopo le 9 il venerdì sera o prima sempre delle 9 il sabato mattina, ché anche il bagnino ti guarda così e si vede che pensa «che non ce l’hai di meglio da fare?».
E poi uscire per una cena di sushi, magari con un vestitino anni ’50 e un paio di tacchi, col plateau discreto. Che invenzione geniale è il plateau discreto?
Otto, nove o anche dieci ore di sonno abbarbicata al Dottorino.
E quando la cosa si fa seria, un pomeriggio all’hammam.
Ecco, penso che nel weekend mi concederò un pomeriggio all’hammam.
Poi basta con le paturnie, si volta pagina, si esce dal letargo.